Da un anno a questa parte la parola “drone” ha assunto significati sempre meno… nobili. Se fino all’inizio del 2022 ne sentivamo parlare principalmente per applicazioni in ambito fotografico e audiovisivo, meteorologico o aerospaziale (ma anche per trasportare medicinali e organi da trapiantare, per combattere il bracconaggio ecc.), con lo scoppio della guerra in Ucraina questa tecnologia aerea è sempre più spesso associata a impieghi bellici. E questo non dovrebbe sorprenderci: come molte altre tecnologie di uso quotidiano (web, Gps ecc.) anche i droni, infatti, sono un’invenzione prettamente militare, “riconvertita” solo successivamente a impieghi civili o persino ricreativi.
C’era una volta il siluro. L’antenato degli odierni UAV (Unmanned Aerial Vechicle, in italiano APR, Aeromobile a Pilotaggio Remoto), fu inventato nel 1918 dall’ingegnere americano Charles Franklin Kettering, che progettò un siluro radiocomandato, precursore degli odierni missili da crociera.
Lo chiamò “Kettering Bug”, l’insetto di Kettering, ed è curioso notare che anche la parola “drone” ha un’etimologia simile: viene dal tedesco drohne, ossia “fuco” (il maschio dell’ape), per via del tipico ronzio che produce quando si alza in volo, assimilabile a quello di uno sciame di api.
La similitudine con gli insetti, però, si ferma qui. Se si pensa a un drone da guerra come a una variante più grande e “cattiva” degli “elicotterini” che fanno le foto durante feste e matrimoni, si è totalmente fuoristrada. I droni militari assomigliano più ad aeroplani o a bombardieri stealth, e spesso ne raggiungono le dimensioni. D’altra parte vengono utilizzati per sganciare ordigni pesanti anche diverse centinaia di kg. Basti pensare che uno dei modelli che preoccupano di più nell’ottica dello scenario bellico attuale è l’S-70 Okhotnik, un drone attualmente in produzione dell’azienda russa Sukhoi del tutto simile a un caccia bombardiere, del peso di 20 tonnellate e capace di viaggiare a 1.000 km/h.
A ognuno la sua taglia. La stragrande maggioranza dei droni è comunque di dimensioni più ridotte. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti li classifica in cinque categorie ben distinguibili: piccoli (small, fino a 9 kg), medi (medium, fino a 25 kg), grandi (large, fino a circa 600 kg), e poi i gruppi 4 e 5 (larger e largest), entrambi più pesanti di 600 kg e con diverse caratteristiche, in grado di operare fino a 5-6.000 metri di altezza e di raggiungere velocità superiori ai 500 km/h. Non essendoci una standardizzazione internazionale, ogni stato e ogni area geografica ha la sua classificazione; in Europa è regolata dall’EASA (European Aviation Safety Agency).
Le diverse caratteristiche servono a rispondere alle multiple esigenze di utilizzo in ambito bellico, che sono prevalentemente quattro. I droni più usati sono quelli per la ricognizione, impiegati per raccogliere informazioni circa un’area o un obiettivo, e dotati dunque di sensori, antenne, fotocamere e videocamere ad altissima precisione. Vi sono poi quelli di sorveglianza, per tenere sotto controllo una zona specifica, con peculiarità analoghe ai precedenti.
Diverse sono invece quelle dei droni di targeting, ossia quelli che negli ultimissimi tempi sono dotati anche di intelligenza artificiale e che possono identificare in autonomia i bersagli e suggerire aree sensibili da colpire. Infine, ci sono quelli da attacco, in grado di sganciare ogni tipo di ordigno, anche nucleare.
Come in un gioco? L’uso di questa tecnologia in guerra solleva anche questioni morali, soprattutto perché il vantaggio di non mettere a rischio la vita di un pilota in carne e ossa è ampiamente controbilanciato dal concreto pericolo di un aumento esponenziale delle vittime civili. Tutto ciò con l’aggravante, secondo alcuni esperti, che essendo tali armi controllate “da remoto”, attraverso un monitor, potrebbero anche creare una sorta di effetto-videogame. A sottolinearlo sono in primis associazioni no-profit come Amnesty International e Human Rights Watch, che denunciano la mancanza di dati univoci sul numero di missioni e su quelli delle vittime collaterali.
Fonte Focus.it