Che esistano i cambiamenti climatici, che siano in gran parte causati dall’uomo e che siano un enorme problema per il pianeta sono tutte cose che oggi noi diamo per scontate. Ma un tempo non lo erano affatto e, soprattutto, un tempo la politica non se ne occupava minimamente.
Per decenni gli scienziati hanno accumulato dati, sempre più allarmanti, e hanno lanciato appelli, che sono caduti nel nulla. Poi, con la Conferenza ONU sul clima di Rio de Janeiro del 1992, qualcosa è cambiato: viene redatta la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), che farà da base al successivo Protocollo di Kyoto del 1997.
Da quel momento in poi, lentamente ma in modo finalmente deciso, la politica internazionale ha preso sempre più atto del fatto che le attività antropiche sono alla base dell’accelerazione delle modifiche del clima globale e del fatto che bisogna fermare il cambiamento climatico, per il bene di tutti.
Sotto accusa, come è ormai noto, sono le emissioni di CO2 e di altri gas “climalteranti”. Per risolvere un problema, però, è prima necessario misurarlo: da questo momento in poi, quindi, anche la politica (e di conseguenza la società) ha iniziato a familiarizzare con il concetto scientifico di “carbon footprint“, cioè l’impronta di carbonio.
Cosa vuol dire carbon footprint
Con la definizione di carbon footprint gli scienziati intendono la misura delle emissioni di CO2 e altri gas climalteranti derivanti, direttamente e indirettamente, da qualunque tipo di attività umana: dai trasporti alla produzione e al consumo di alimenti, dalla produzione e consumo di energia e quelli dei singoli prodotti.
Ogni prodotto, servizio o attività svolta dall’uomo ha una carbon footprint più o meno alta e che può essere misurata
Il Protocollo di Kyoto specifica che, nel calcolo dell’impronta di carbonio, vanno considerate le emissioni di CO2, metano, ossido nitroso, idrofluorocarburi, perfluorocarburi ed esafloruro di zolfo.
Come si misura la carbon footprint
Misurare l’impronta di carbonio non è affatto facile, perché si tratta di una misurazione che deve prendere in considerazione un bene, servizio o attività antropica “dalla culla alla tomba“: tutte le emissioni che, direttamente o indirettamente, derivano da tale bene, servizio o attività vanno sommate per ottenere l’impronta di carbonio. Il risultato viene espresso in tCO2e, cioè tonnellate equivalenti di anidride carbonica.
Esiste, per questo, una carbon footprint “diretta” e una “indiretta” (chiamate anche “primaria” e “secondaria”). L’impronta di carbonio diretta è quella derivante dal bene, servizio o attività nel momento in cui l’uomo lo usa, lo fruisce o la mette in atto.
Ad esempio i trasporti privati: ogni auto ha specifiche emissioni di CO2 per chilometro percorso, quindi è abbastanza facile calcolare la sua carbon footprint diretta moltiplicando i chilometri percorsi per le emissioni per chilometro.
Percorrere un chilometro con un’auto sportiva, quindi, in teoria ha un impatto sull’ambiente maggiore rispetto a percorrere lo stesso chilometro con una utilitaria. Ma non è così semplice, perché se a bordo dell’auto sportiva salgono quattro persone, mentre a bordo dell’utilitaria c’è solo il guidatore, la carbon footprint “pro capite” di quel chilometro percorso in auto potrebbe essere inferiore sulla sportiva e superiore sull’utilitaria.
Ci sono da calcolare, poi, le emissioni indirette derivanti dallo stesso chilometro percorso in auto: tutte quelle causate dall’estrazione del petrolio, dal trasporto in raffineria, dalla sua raffinazione in benzina o diesel, dal trasporto del carburante di benzina al distributore etc etc.
A queste emissioni indirette relative al carburante, poi, vanno aggiunte quelle relative alla produzione dell’auto. Insomma, il calcolo della carbon footprint è qualcosa di tutt’altro che banale.
Oggi, ad esempio, è in corso un acceso dibattito sulla carbon footprint secondaria delle auto elettriche: è vero che durante il loro utilizzo non viene emesso solo un grammo di CO2, né di altri gas climalteranti, ma è altrettanto vero che per produrre l’auto, le batterie e l’energia elettrica viene emessa CO2. In alcuni casi anche tanta CO2, se la batteria è molto grande e se l’elettricità è prodotta dal carbone.
La normativa ISO 14067
Per tentare di ridurre al massimo l’incertezza nel calcolo della carbon footprint, e per limitare gli errori di misurazione, nel 2018 è stata pubblicata la normativa ISO 14067 che definisce gli standard internazionali di misurazione dell’impronta di carbonio.
L’approccio è quello della valutazione LCA (Life Cycle Assessment), che prende in considerazione tutto il ciclo di vita del bene o servizio
La cosa positiva di questo standard è che riesce a mettere a fuoco quali sono le fasi del ciclo produttivo di un prodotto (o della fruizione di un servizio) durante le quali vengono emessi più gas climalteranti. Ciò permette di capire quali sono i punti critici dei processi, per poterli migliorare senza stravolgere la produzione del bene o il servizio.
Come ridurre la carbon footprint
Alla luce di questa spiegazione di massima (per forza di cose incompleta e sommaria, ci perdonino i fisici e i chimici), è chiaro che le persone comuni non saranno mai in grado di calcolare la propria carbon footprint, se non in modo molto approssimativo.
Tanto basta, tuttavia, per fare delle scelte maggiormente attente ai cambiamenti climatici.
In qualunque modo venga prodotta l’energia che consumiamo, è chiaro che meno ne usiamo e meno CO2 emettiamo
In qualunque modo venga prodotta l’auto che usiamo, è chiaro che meno chilometri l’anno facciamo in auto (e più a piedi o con mezzi di trasporto collettivo) e meno emissioni produciamo.
Considerando le emissioni relative ai prodotti di uso quotidiano, e adottando il già citato approccio “dalla culla alla tomba” (che prende, cioè, in considerazione tutte le fasi di produzione del bene e il suo successivo smaltimento), è facile capire che cambiare auto ogni dieci anni ha un impatto minore sul clima rispetto a cambiarla ogni cinque anni.
E questo, molto probabilmente, anche se le auto prodotte cinque anni dopo hanno consumi di carburante molto minori: in soli cinque anni di periodo di vita, infatti, la fetta più grossa di carbon footprint è ancora derivante dalle emissioni generate durante la produzione dell’auto.
Fonte Fastweb.it