(di Giorgio Gosetti) Ci sono attori che modellano il
proprio ruolo su se stessi e altri che, con il mimetismo del
camaleonte, sanno calarsi in panni diversissimi, assumendo
fogge, tic e persino una fisionomia lontanissima dalla propria.
Sergio Castellitto, attore e regista tra i più popolari della
sua generazione, festeggia il 18 agosto i suoi primi 70 anni,
marcati da un’adolescenza brillante da autodidatta, una
bellissima carriera cominciata da figurante nel 1981 con due
film opposti (“Tre Fratelli” di Francesco Rosi e “Carcerato” di
Alfonso Brescia) proprio mentre otteneva i primi successi a
teatro con maestri quali Aldo Trionfo ed Enzo Muzii, un felice
sodalizio artistico e sentimentale con Margaret Mazzantini, la
soddisfazione del figlio Pietro oggi in concorso come regista
alla Mostra di Venezia.
Atletico, posato, istrionico, riflessivo, cangiante, coerente
sono tutti aggettivi che gli si addicono a conferma di un
percorso professionale in cui non si è mai accontentato del
semplice successo per sorprendere ogni volta un pubblico più
vasto. Se sul grande schermo ha restituito soprattutto se stesso
con prove magistrali come il suo “Non ti muovere” (2004)
premiato dal David di Donatello al miglior attore, in
televisione si è abbandonato spesso al più virtuosistico
trasformismo, dall’affilato profilo di Fausto Coppi al saio di
Padre Pio, dal volto tormentato di “Drake” Ferrari alla tonaca
di Don Milani, dalla seriosità compunta di Aldo Moro
all’uniforme del Generale Dalla Chiesa.
Tra grande e piccolo schermo iscrive oggi il suo nome in un
centinaio di titoli, con grandi soddisfazioni anche lontano
dall’Italia, dall’incursione americana de “Le cronache di
Narnia” (2008) in cui vestiva i panni regali di Miraz alle
ripetute presenze nel cinema francese d’autore. Qui a scoprirlo
è Luc Besson con “Il grande blu” (1988), ma è Jacques Rivette a
valorizzarlo fin da “Chi lo sa?” (2000) e poi “Questione di
punti di vista” nove anni più tardi.
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