Quantità e qualità al giusto prezzo oltre ad essere uno slogan pubblicitario da TV regionale è una frase che riassume ciò che un consumatore (preferisco la parola “compratore” però…) vorrebbe.
Quante volte queste tre variabili, cioè quantità, qualità, prezzo, non sono state comprese nella stessa equazione contemporaneamente?
Almeno una di esse deve sacrificarsi in nome delle altre due, questa è pressoché una regola che esiste da quando è nato il commercio e che (sintetizzando estremamente) Internet avrebbe potuto o dovuto rendere obsoleta.
In realtà, se è vero che attraverso l’e-commerce è possibile fare uno shopping conveniente (che a volte genera però un “carico etico” che, nel mondo fisico, non c’era e non c’è), Internet permette di usufruire direttamente di contenuti digitali e non sempre questi sono economici o di qualità rispetto agli stessi servizi usufruiti in modo più tradizionale.
L’esempio più eclatante è lo sport a pagamento: almeno in Italia, oggi, si paga di più per vedere peggio e usufruire dei contenuti in modo più difficoltoso (senza contare la probabile esclusione di generazioni meno avvezze alla tecnologia). Tutto il contrario di ciò che si aspetta da Internet, cioè da una rivoluzione tecnologica, in poche parole.
C’è però, secondo, me, un’eccezione a tutto ciò che ho scritto: i servizi musicali di streaming on demand.
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Personalmente uso Spotify (e ne sono soddisfatto), usavo Deezer (e ne ero soddisfatto) ma ce ne sono diversi: Apple Music, Amazon Music Unlimited, Tidal, Qobuz (questi ultimi due per audiofili, visto che si distinguono per una maggiore qualità audio rispetto agli altri servizi).
Tutti questi servizi prevedono un abbonamento per un account di circa 10€/mese (Qobuz 20€ al mese circa, è un po’ la Cadillac di questi servizi), cioè come un gin tonic in moltissimi bar di Milano, ed un accesso illimitato a decine di milioni di brani; inoltre sono previsti dei piani di abbonamento “comune” che permettono di spendere anche meno (ad esempio 5 o 6 account a 15€/mese circa).
Ci sono anche opzioni gratis per alcune di queste piattaforme che prevedono l’ascolto di pubblicità durante la fruizione dei contenuti e la limitazione del catalogo o della scelta dei contenuti da ascoltare: sconsiglio questo tipo di utilizzo perché limita, in modo decisivo, le potenzialità del servizio.
Dalla digitalizzazione dell’audio a Internet
È stata Internet un fattore decisivo per questa rivoluzione della fruizione della musica ma non è stato l’unico, l’altro fattore decisivo (sorvolando sull’imprenditorialità delle persone dietro alle piattaforme di cui sopra) è stata la digitalizzazione dell’audio che ha permesso la nascita della musica digitale, ossia la conversione di una qualsiasi composizione musicale in segnale, appunto, digitale.
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Il 1951 è l’anno in cui ci fu la prima registrazione di musica digitale, effettuata dalla BBC che registrò la musica prodotta dal Computer Ferranti Mark I; da allora non ci furono novità in questo senso fino al 1979 quando fu definito lo standard CD Audio da Sony e Philips e la stessa Sony, nel 1982, lanciò il primo lettore CD.
Fino all’avvento di Internet e del World Wide Web però, il potenziale dei file audio digitali era sfruttato solo (molto) parzialmente, infatti si era imposto per la resistenza del supporto dove veniva registrato (ossia il CD, molto più duraturo di un vinile o di una musicassetta), per la facilità di utilizzo del supporto stesso (risposta immediata ai tasti di pausa, stop e skip) e per l’infinita riproducibilità del file stesso senza inficiarne la qualità.
Proprio quest’ultima caratteristica ha permesso ai file digitali di rivoluzionare, con l’avvento di Internet, non solo l’industria musicale ma il rapporto di ciascuna persona con la musica e la sua fruizione, essendo il file “scaricabile e caricabile” sui e dai computer e, se i computer sono connessi, su e da Internet.
Ciò ha introdotto il boom della cosiddetta pirateria musicale, avvenuto con le prime connessioni a banda larga, a fine anni ‘90.
La guerra alla pirateria musicale
Inizialmente e per molti anni (in realtà, anche se in misura nettamente inferiore, anche oggi), una sorta di vacatio legis, o meglio, di mancanza di norme e di incapacità di regolarizzare la diffusione di musica digitale online da parte delle istituzioni, ha permesso l’esplosione della pirateria musicale online.
Napster è stato l’esempio più eclatante di piattaforma online per l’acquisizione in modo gratuito e illimitato di contenuti musicali del tutto identici a quelli che si acquistavano in negozio (ad eccezione, ovviamente, del packaging, eccezione che vale anche oggi per le piattaforme “legali”).
Napster era un servizio, per certi versi, peer-to-peer, anche se aveva dei server centrali che contenevano le liste dei sistemi connessi e dei file condivisi, dove lo scambio di file, però, avveniva tra gli utenti connessi.
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Le major discografiche, dopo un’iniziale guerra a questo tipo di attività nel tentativo di eliminarle, resesi conto che ormai il modo di fruire la musica era definitivamente cambiato, hanno fatto di necessità virtù: lo stesso Napster, nel 2002, è stato acquista da Bartelsmann AG (una delle maggiori aziende multimediali al mondo) e ha cominciato a vendere musica online legalmente.
In realtà, però, è stata Apple nel 2003, con iTunes Store a massificare l’utilizzo di questo tipo di servizio, riuscendo ad avere nel 2004 il 70% del mercato di musica digitale.
Lo streaming musicale legale
Da allora, in barba alla pirateria sempre e comunque presente, i ricavi generati da questo tipo di servizio sono stati tali da permettere allo streaming musicale “legale” di evolversi continuamente, sia dal punto di visto della qualità (sia audio, che di catalogo, che di interfaccia, che di algoritmi “propositivi” basati sugli ascolti degli utenti) che dal punto di vista delle piattaforme che offrono il servizio.
Il progresso tecnologico in generale, inoltre, permette oggi di produrre musica a un costo molto più basso rispetto al passato. Un produttore e uno studio di qualità faranno sempre la differenza però le possibilità di autoprodurre un disco con una qualità sonora accettabile erano, anni fa, scarsissime visti i costi mentre oggi è molto più facile. Questa ulteriore svolta, si potrebbe pensare, semplificando, facilita l’espressione del talento in luogo della presenza di uno “sponsor”.
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Poi è ovvio che di Black Sabbath e Jimi Hendrix se ne vedono comunque pochini… però la scelta musicale è pressoché infinita, soprattutto attraverso lo streaming, ed eccede sicuramente qualunque bisogno o voglia di ascoltare musica.
Proprio da qui nasce l’unico problema, almeno per me, legato allo streaming musicale: ciò che chiamo “bulimia” musicale.
Ascolto sempre tanti dischi diversi, cerco sempre musica nuova: ormai è difficile che ascolti un disco, anche se mi piace molto, dieci volte (quando acquistavo un CD le 30 volte di ascolto erano il minimo per un disco che mi piaceva). Il senso di colpa bulimico nasce dal fatto che, da una parte, non rendo giustizia all’opera che mi è piaciuta e, dall’altra, che il bisogno quasi tossico di ascoltare “robe nuove” prevalga sul piacere di godermi la musica che mi piace.
Sto cercando di risolvere questo problema frenando la mia frenesia verso la musica “nuova”, nel frattempo sono sempre più convinto che lo streaming musicale sia ciò che di meglio Internet abbia da offrire, soprattutto considerando le tre variabili di quantità, qualità e prezzo.
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Fonte Fastweb.it