Dopo gli ultimi 2 anni in cui abbiamo toccato con mano e a volte con dolore cosa significhi cambiamento, dopo aver compreso o conosciuto per la prima volta la definizione di cigno nero (la metafora che indica un evento catastrofico non previsto), le aziende si interrogano su quali siano le competenze che consentono di percorrere la strada verso il futuro del mondo del lavoro.
Googlando Future of Work si trovano infatti tantissimi articoli in rete, tra cui il Report 2020 del World Economic Forum: The Future of Jobs.
Attraverso alcuni eventi formativi progettati recentemente, abbiamo focalizzato cosa significhi dotarsi di un Mindset che consenta di affrontare e governare i cambiamenti. Non ha senso parlare solo di tecnologia e di digital trasformation: è l’uomo che deve reinventarsi ed allenarsi per essere pronto a gestire e guidare la sempre maggiore complessità del futuro.
Quali sono le competenze su cui far leva? E quale sarà lo scenario del mondo del lavoro dei prossimi anni?
Le Real Skills
Alcuni dati del World Economic Forum riportano che mentre nel 2018 la componente umana e la componente macchina, nelle aziende, erano rispettivamente il 71% e il 29%, nel 2025 queste percentuali diventeranno rispettivamente 47% e 53%: assisteremo dunque ad una predominanza (53%) della componente macchina/artificiale.
Una tale previsione può adombrare le speranze di molti e aumentare le preoccupazioni circa la futura mancanza di lavoro a vantaggio dei bot.
Ma la stessa fonte indica, d’altro canto, che nell’elenco della Top 10 delle competenze necessarie nel 2025, figurano competenze prettamente umane e che non hanno nulla a che fare con le macchine come l’analytical thinking e l’innovazione (al 1° posto) o l’active learning e le learning strategies (al 2°), e ancora la creatività (al 5°).
È molto interessante mettere insieme questi due pezzi di informazione e capire come emerge in modo sempre più evidente quanto le skills un tempo definite soft, quasi ad indicare una loro importanza secondaria rispetto alle hard skills (cioè alle competenze specialistiche e tecniche) siano preponderanti in questo scenario.
Tanto è vero che chiamarle soft skills è ormai obsoleto e anacronistico. Seth Godin le definisce real skills, competenze reali, perché sono al cuore di ciò che ci serve oggi: competenze umane per le quali non è possibile (almeno non ancora) programmare un computer che le svolga.
Il modello delle competenze a forma di Z
È cambiato anche l’alfabeto del modello delle competenze necessarie: da un modello a forma di I, in cui conta solo l’asse verticale (immaginatevi la forma della lettera “I” appunto), dove verticale significa specializzazione e dove dunque si fa carriera sulla base delle competenze specialistiche e tecniche, si è passati (fin dagli anni ’90) ad un modello a forma di T, in cui all’asse
verticale si è aggiunto un asse orizzontale che indica alcune competenze cross come potenzianti delle competenze verticali. Il focus, oggi, come indicato anche nell’articolo di Jeanne Meister, è su un modello a forma di Z (Z-shaped skills).
L’immagine riportata qui sotto indica quali sono le Z-shaped skills, ovvero le competenze a forma di Z che siamo invitati a sviluppare. Possiamo notare che nei 2 assi orizzontali della lettera Z sono rappresentate skills un tempo definite soft, come la creatività e le 5C, mentre nell’asse diagonale sono indicate competenze trasversali e necessarie ormai in qualsiasi organizzazione, come la dimestichezza col contesto di business di riferimento e con il digitale (business&digital literacy).
Le 5C (Collaboration, Critical thinking, Change management, Communication, Cultural fluency) rappresentano rispettivamente le competenze di lavorare insieme, pensiero critico, gestione del cambiamento, comunicazione e consapevolezza culturale, ovvero la capacità di riconoscere i diversi contesti in cui si muovono e si relazionano le persone di diverse culture.
Questo modello mette in luce come siano le competenze reali (ex soft) a “reggere” tutto il resto: l’asse orizzontale superiore e l’asse orizzontale inferiore sono fondamentali per affrontare il mondo del futuro. Il solo asse diagonale, quello della competenza relativa al business che si svolge e della competenza digitale, non è sufficiente.
Il fattore umano
Tutto ciò rappresenta un’ottima notizia per chi teme che l’avvento della tecnologia, delle macchine, dell’Intelligenza Artificiale possa cancellare dei lavori e sostituire il ruolo dell’uomo.
È vero che alcuni lavori scompariranno (si stima circa 75 milioni di ruoli) ma si tratterà principalmente di lavori a basso valore aggiunto, che lasceranno spazio per re-ingegnerizzare processi e attività (si stima anche che i lavori nuovi che compariranno saranno circa 133 milioni).
Il fattore umano sarà quindi determinante, proprio in forza dell’avvento dell’automazione: mi ha colpito leggere che ci sono esperimenti in atto di nuovi lavori come l’empathy trainer, colui o colei che insegna l’empatia alla macchina o l’igienista del dato, colui o colei che si occupa di preservare la pulizia del dato, affinché dati “sporchi” immessi nel sistema non causino dati “sporchi“ in uscita.
Del resto, il 60% dei nuovi lavori è da inventare!
Che conclusione possiamo trarne come professionisti?
La sfida è, quindi, per ciascuno di noi, quella di riqualificarsi: l’upskilling ed il reskilling dei lavoratori si palesano come imprescindibili per le aziende che vogliono stare al passo con il cambiamento, cavalcarlo e anticiparlo laddove possibile.
Un recente sondaggio di IBM Institute for Business Value, stima infatti che
più di 120 milioni di lavoratori nelle dodici maggiori economie mondiali avranno bisogno di reskilling nei prossimi tre anni per effetto della diffusione dell’AI
Nel mio ruolo di Training Manager in un’azienda Tech, deduco che il lavoro non mancherà.
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Fonte Fastweb.it