Cos’è il linguaggio inclusivo?
Se ne sta parlando tanto, spesso arrivando alla conclusione che “l’italiano è una lingua sessista”.Partiamo da un presupposto: il sessismo nella lingua è solo uno degli aspetti che vale la pena prendere in considerazione.
Il linguaggio inclusivo è molto di più, è uno spettro che comprende le molte identità e le infinite sensibilità che abitano la società.
Il vocabolario Treccani definisce l’inclusività come 1. Capacità di includere. 2. In particolare, capacità di includere più soggetti possibili nel godimento di un diritto, nella partecipazione a un’attività o nel compimento di un’azione; più in generale, propensione, tendenza ad essere accoglienti e a non discriminare, contrastando l’intolleranza prodotta da giudizi, pregiudizi, razzismi e stereotipi.
Scrivere e comunicare in modo inclusivo è quindi una scelta di comunicazione, che contemporaneamente contribuisce a creare una società più democratica e partecipativa. Significa nominare cose, persone e comportamenti affinché acquisiscano valore per chi parla o scrive e per le persone che leggono o ascoltano.
È il linguaggio che influenza la realtà? O è la realtà che influenza il linguaggio? La risposta forse vede entrare in gioco entrambi i fattori. I nomi sono conseguenza delle cose, ma sono anche i pensieri e le parole che generano la realtà.
E allora come riconoscere gli stereotipi inconsapevoli e quali sono le possibili soluzioni?
Di seguito affrontiamo 3 temi chiave per un linguaggio il più possibile rispettoso della convivenza tra differenze: il genere, la disabilità, l’ageismo. Occasioni in cui fare attenzione alle parole dell’inclusione per abbracciare diverse sfere del nostro vivere sociale.
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Linguaggio inclusivo di genere
Abbiamo studiato negli ultimi anni il linguaggio sessista. Dal più generico …è/non è roba da donne, alle espressioni frutto di convinzioni molto antiche – i diritti dell’uomo, uomo di mondo/donna di mondo – all’infinito dibattito sui nomi delle professioni.
Medico donna? medica? Ministra, assessora (ok, non suona, ma è solo questione di abitudine: Angela Merkel era cancelliera, e nessuno se ne lagnava).
Perché poi il segretario è un ruolo importante di un partito o di un’istituzione, e la segretaria è quella che tiene l’agenda del capo e gli porta il caffè, (oggi si chiama personal assistant, ma le mansioni son tanto diverse)?
Pregiudizi trasmessi fin dall’infanzia, attraverso la letteratura, il cinema, il pensiero comune.
Per noi i nomi, gli aggettivi, le persone dei verbi, e tutti i pensieri correlati, sono maschili o femminili. Piaccia o no, la lingua italiana è gender marked: a differenza dell’inglese, dove quasi tutte le forme sono neutre o ambivalenti. E per consuetudine – non per legge divina – il plurale misto diventa maschile.
È vero che ferve il dibattito sull’asterisco, e sullo schwa che include il maschile e il femminile, quella vocale intermedia tra la a e la e, indicata graficamente con una e rovesciata > ə.
Non sono le uniche soluzioni, si possono utilizzare perifrasi e forme linguistiche più “accoglienti” che superino l’abitudine cronicizzata del maschile sovraesteso.
Quello che stiamo vivendo è un momento magico per la riduzione del divario di genere, in tanti campi dell’umanità. Anche con accelerazioni brusche, magari anche solo provocatorie.
Analizzare il linguaggio aiuta a cogliere il passaggio tra i nostri pensieri e quelli altrui; e così a scegliere parole che includono, anziché escludere; che rispettano, anziché attaccare.
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Una definizione di abilismo
Partiamo da un assioma: non esistono abili e disabili. O, a dirla tutta, siamo tutti limitatamente o temporaneamente abili. Conviene familiarizzare con una parola nuova, abilismo, che è l’insieme di atteggiamenti e comportamenti discriminatori nei confronti delle persone con disabilità.
Esistono comportamenti abilisti, come scegliere un luogo inaccessibile per un meeting o un evento, o usare una sedia a rotelle di qualcun altro per appoggiarsi, o per appoggiarci sopra degli abiti, e poi ci sono forme di micro-aggressioni abiliste che partono da spunti goliardici, non intenzionalmente offensivi.
Le parole sono di sicuro responsabili dell’includere o dell’escludere. Ben prima della disabilità.
Le parole più escludenti sono i nomi. Sono le parole che più definiscono la sostanza delle nostre idee (sostantivi, sub-stanzia, ciò che sta sotto).
Pensiamo a come sono spesso chiamate le persone con patologie (i tossici, i depressi, i diabetici), o appunto con disabilità (i ciechi, i sordi, gli zoppi, i paraplegici).
Persone contro persone, stigmatizzazioni. Che si trasmettono nelle famiglie, nei gruppi organizzati, e diventano modi di essere e di concepire l’essere degli altri. Pregiudizi, più o meno inconsci.
Risulta un poco differente se metto un certo significato in un aggettivo, o in una descrizione, collegato a persona: persona cieca, persona con disabilità.
Forse basta un ascolto un po’ più intenso e profondo, uno scrupolo di rispetto, di gentilezza, di empatia, e tutti possono far stare meglio le persone con cui vivono, nel lavoro e nella vita personale, tenendo un comportamento accogliente anche con persone appena conosciute. Utopia? La speranza è che sia una reale possibilità.
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Che cos’è l’ageismo
Partiamo dalla definizione: la parola ageism non è ancora di uso comune.
Se apriamo un paio di dizionari d’inglese vi si legge: 1) Discrimination or prejudice against persons on the basis of their age. 2) Unfair treatment of people because they are considered too old.
Come? Solo il “too old”? non il viceversa?
Poi guardando i dizionari italiani la sorpresa: o non si trova nulla, o “discriminazioni basate sull’età”, o ancora direttamente “discriminazione degli anziani”. Anche qui: come se la discriminazione potesse essere a senso unico, dai giovani verso gli anziani.
Il Treccani poi stabilizza: “Forma di pregiudizio e svalorizzazione ai danni di un individuo, in ragione della sua età; in particolare, verso le persone anziane”.
Forse, più che in una contrapposizione ideologica, l’ageismo si colloca in una dialettica naturale. E poi chi è giovane – almeno, auguriamocelo – un giorno sarà una persona anziana. E tutte le persone anziane sono state giovani. Sono le due esperienze che più facilmente convivono negli esseri umani.
I pregiudizi sull’età sono consolidati da secoli, forse ben più radicati nella parte consapevole del nostro agire. Pensiamo alla letteratura classica, al teatro, al cinema, dove l’eroe in genere è un giovane ardimentoso, e l’anziano è saggio, sì, ma spesso anche malandato e magari pure un po’ rintronato.
Però qui, forse, rispetto ad altri pregiudizi, può essere più facile una soluzione d’inclusività, che è la reciprocità, lo scambio, la mutualità.
Il problema delle differenze generazionali può trovare in sé la soluzione. È quello che oggi viene chiamato reverse mentoring, o meglio mutual mentoring.
E questo può funzionare in entrambe le direzioni del confronto generazionale. Il mutual mentoring è un patto, scintilla di uno scambio di valori e competenze, di una relazione non gerarchica, basata sulla reciprocità e sul desiderio d’imparare, l’una parte dall’altra.
Quando c’è rispetto, c’è già reciprocità.
Diamo uno sguardo anche dentro questa parola, reciprocità. Recus, indietro, e procus, avanti. Reciproco: ciò che va e torna. Perché è vero che ogni scambio inizia con un atto di fede – la fiducia, l’amore, il chiedere scusa, il disarmo – ma è quando poi diventa reciproco che si accende qualcosa di prezioso.
E di questo prezioso allenamento al rispetto reciproco anche nel linguaggio parliamo (e scriviamo) nel corso Le parole dell’inclusione, gratuito e disponibile sulla piattaforma Fastweb Digital Academy.
Per visualizzarlo e ottenere il badge digitale, è sufficiente registrarsi a Fastweb Digital Academy oppure, per chi ha già effettuato la registrazione, si accede direttamente a questo link.
Buone parole dell’inclusione!
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Fonte Fastweb.it