Oggi grazie a Internet e alle app per smartphone possiamo accedere a migliaia di servizi e informazioni, in modo completamente gratuito. Nell’economia 2.0 la parola d’ordine è “gratis”: l’utente si aspetta che il servizio base sia gratis e di pagare solo per eventuali funzioni premium.
La maggior parte delle piattaforme e degli ecosistemi digitali più usati al mondo sono 100% gratis e non hanno alcun tipo di pagamento: è gratis la ricerca su Google, è gratis Facebook, è gratis Google Maps e sono gratis moltissimi altri servizi
Ma, in realtà, come dice il detto “Se non lo paghi, allora il prodotto sei tu” e questo vale ancor di più su Internet dove i dati di navigazione e di utilizzo delle app sono il vero oro nascosto di chi eroga il servizio.
Di fatto qualunque app e qualunque servizio online traccia il comportamento dell’utente e usa quei dati per somministrargli pubblicità altamente personalizzata, o li vende a chi fa proprio questo di mestiere.
Come funziona il tracciamento pubblicitario
Il tassello fondamentale sul quale si basa gran parte del tracciamento sono i “cookie“, i piccoli file di testo nei quali, per ogni sito o servizio online visitato dall’utente, vengono appuntati una marea di dati: dall’indirizzo IP al tipo di dispositivo usato per la connessione, passando da alcuni dettagli del suo comportamento online e da quelli relativi all’eventuale login sul sito.
Altri modi molto efficaci per sapere chi sta visitando un sito e tracciarlo lungo tutta la navigazione sono i cosiddetti “pixel di tracciamento“, il codice javascript e gli “iFrame“, cioè delle porzioni delle pagine Web dove viene mostrato del contenuto proveniente da un servizio esterno, oppure viene eseguito del codice presente sul sito del servizio di tracciamento pubblicitario.
Il tracciamento dell’utente è solo la prima fase, quella della raccolta dei dati grezzi che verranno poi elaborati in vario modo al fine di mostrare proprio quella pubblicità, proprio a quell’utente.
Come funziona la pubblicità personalizzata
Per legge, in tutti i Paesi, il tracciamento dei dati di navigazione e di utilizzo dei servizi deve essere fatto in modo anomimo. Ma ciò non vuol dire che un circuito pubblicitario non sappia chi è l’utente che sta visitando il sito dove è mostrato il suo banner: semplicemente non ne sa nome e cognome, ma lo ha identificato in modo univoco grazie ai cookie e agli altri metodi di tracciamento.
A questo punto, sapendo chi sta visitando il sito, i circuiti pubblicitari hanno sostanzialmente due possibilità principali: mostrare sempre la stessa pubblicità relativa ad un prodotto per il quale l’utente ha manifestato un interesse, oppure offrire una pubblicità coerente con gli interessi e i dati personali dell’utente.
La prima opzione è possibile soprattutto tramite i cosiddetti “cookie traccianti“, che sono dei coockie più evoluti, che seguono l’utente da un sito all’altro. Se Mario Rossi ha visitato uno shop di scarpe online e si è soffermato su un preciso modello (magari mettendolo nel carrello, per poi toglierlo in quanto troppo caro) e poi è uscito dal negozio e ha continuato la navigazione, allora è assolutamente probabile che nei successivi siti veda in continuazione almeno un banner che pubblicizza esattamente quel modello di scarpe.
La seconda opzione è più complessa, più raffinata e meno problematica per i circuiti pubblicitari, perché è meno invasiva per la privacy dell’utente. In questo caso l’utente viene sì profilato, ma poi inserito in una “coorte“, un gruppo di utenti con gusti e abitudini simili che, verosimilmente, saranno tutti interessati a comprare prodotti simili.
Il vantaggio di questo metodo, per il circuito pubblicitario, deriva dal sommare i gusti di più utenti: se una piccola parte della coorte ha acquistato un prodotto appena uscito (o a manifestato interesse nell’acquisto del prodotto), allora è molto probabile che anche il resto della coorte possa esserne interessato.
In questo modo vengono create delle nuove tendenze all’acquisto che, con il tracciamento diretto aggressivo descritto prima, non potrebbero neanche nascere.
Facebook, ad esempio, divide gli utenti in coorti in base ai loro interessi e alle caratteristiche demografiche. Poi gli inserzionisti utilizzano le coorti per restringere il loro potenziale pubblico e scegliere a chi mostrare una specifica pubblicità.
Questi interessi possono includere determinati sport, delle celebrità, alcuni cibi e i generi musicali. Il tutto viene ulteriormente messo a fuoco in base a posizione geografica, età, livello di istruzione, sesso e stato relazionale. Nel conto finiscono anche eventuali viaggi, frequenza di pubblicazione e l’interazione con altri annunci pubblicitari.
Google utilizza una politica simile su AdSense: annunci mirati in base ai dati demografici, alla cronologia delle visualizzazioni e ai tipi di siti Web visitati più di frequente. Un altro modo in cui Google somministra la pubblicità Google AdWords: i primi risultati di una pagina di ricerca sono sponsorizzati e selezionati in base alla chiave di ricerca e ai dati raccolti nel tempo sul comportamento dell’utente.
La prossima evoluzione della pubblicità di Google passerà dalle Federated Learning of Cohorts (FLoC), che fanno parte di una grande manovra di Big G: la Privacy Sandbox Initiative, in base alla quale i siti Web dovrebbero fare a meno di usare i cookie. Tuttavia, questa evoluzione della pubblicità online è al momento in bilico: negli Stati Uniti è stata accusata di essere anticompetitiva, mentre in Europa sembra non del tutto compatibile con il regolamento sulla privacy GDPR.
Fonte Fastweb.it